Il Blog di Enzo Minarelli

Davide contro Golia  

David against Goliath

4 incontri di letteratura sperimentale

4 meetings of experimental literature

YOUTUBE Enzo Minarelli Channel

 

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13 maggio h 21 CET

Reading Poesie Anni Ottanta

Obscuritas Obscenitats, Geiger, 1979

Multipoesie Melogrammatiche, Geiger, 1981

Lapoemago Maggiore, AlphaBeta, 1986

Meccanografie, Campanotto, 1991

Poesie Doccaso, Elytra 1993

 

Poesialineare/Linear poetry

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20 maggio h 21 CET

Poesie Futuriste

1 F. Tommaso Marinetti, Dune (Adrianopoli 1912), (Zang Tumb Tuuum),  Milano, Edizioni di Poesia, 1914

2 Fortunato Depero, Subway, 1932

4 Fortunato Depero, Verbalizzazione astratta di signora, 1927

5 Fortunato Depero Skyscrapers, 1929 (Grattacieli)

4 F. Tommaso Marinetti, Savoia, 1917.

Enzo Minarelli LIVE in San Francisco

 

 

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27 maggio h 21 CET

The Raven by Edgar Allan Poe

reading and comment in English

 

 

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3 giugno h 21 CET

Omaggio ad Arno Holz e  Julio Cortázar

 

Letture dal Phantaus e Rayuela

Arno Holz

https://keespopinga.blogspot.com/2010/04/parole-inventate-3-il-gliglico-di.html

 

reading Italiano Español

Poemusica e il suo significato

 

Poemusica va intesa alla stregua di un segno nuovo che non è mera somma di poesia e musica, ma una pratica che si propone di significare qualcosa di più di una semplice sovrapposizione, il che giustificherebbe tal connubio dove i due elementi vengono in stretto contatto per dare origine, McLuhan docet, ad una nuova entità.

La storia del secolo scorso ci consegna un percorso intrapreso con assai diversificati punti di riferimento, penso al Roversi per Dalla e a quei cantautori che hanno fatto poesia in musica, De Gregori e De Andrè, anche se su tutti svetta Paolo Conte. Il pensiero va pure a Steve Lacy per Adriano Spatola o ad Ares Tavolazzi in collaborazione con lo scrivente, giusto per dare due coordinate musicali versus poesia sonora. Il vocabolo musica è lo stesso ma cambia la funzione, nel caso cantautorale la parola seppur poetica si pone diligentemente al servizio della musica, forse solo nel caso del primo Conte non è proprio così, per cui a conti fatti siamo di fronte ad una canzone, mentre in poesia sonora, la musica risulta soccombente, nel tentativo, peraltro già acquisito dalla tradizione liederistica, di sottometterla alla parola.

Fatte queste considerazioni, dove collocare questo nuovissimo DNA della poesia? Utile specificare che il titolo proviene da un verso di Valerio Magrelli, mentre l’esergo è una citazione nicciana in proiezione wagneriana, “the eloquence has become music”. AnimaeNoctis, Silvia Marcantoni Taddei e Massimo Sannelli non è solo un duo ma un vero ensemble per la mole di strumenti che suona, al di là delle vocals. E quando s’imbocca la già menzionata e piuttosto affollata via della poemusica, occorre a priori prendere alcune precauzioni e nella fattispecie elaborare una propria teoria da cui poi deriva quello che comunemente si chiama stile. E questo processo si avvera, lo si capta sin dai primi minuti. La voce esce molto controllata, starei per scrivere studiata, e influenza positivamente tutto l’ascolto dei pezzi, ben 27 ma relativamente brevi. E anche questo dato della brevità gioca a loro favore, a tratti sembra che i due autori abbiano elaborato un calco strutturale, un alveo modulare dentro il quale introiettano, clessidra digitale, il tempo che passa e sanno quando fermarsi. Indubbia virtù in questo contesto poemusicale.

E così il distorto espertissimo linguaggio si dimena e si svincola giustamente dentro la canzone fatta di note e parole. Ecco, la loro poemusica spesso assomiglia al melologo soprattutto perché lascia campo libero alla musica, la quale si abbassa di un tono o due quando spunta la voce. Emblematico da questo punto di vista Im Schatten von Zarathustra. Va detto a proposito che i brani hanno referenze alte, Poe, Sanguineti, Dickinson, Spencer, Campana, Leopardi, tuttavia qui vorrei ricordare invece Crolla-Lanza di Massimiliano Chiamenti (valido poeta-performer purtroppo scomparso giovanissimo anni fa), eseguito con brio e tanto equilibrio ritmico fino al sussurro iterato del finale nel fuoco della passione.

Trovo che le parti migliori siano proprio quelle dove l’assetto performante si appoggia su una lettura che poi si percepisce come accorgimento fonetico, un andamento discreto da recita intima, entrando in punta di piedi nel salotto dei grandi maestri. La voce quasi bisbiglia in Musical Transcription of a Transcription for Organ Music e finisce nell’ossessione ginsberghiana di Holy. Compare anche il vero canto, a rendere ancor più evidente quanto detto. Non a caso c’è un lungo omaggio poundiano anche se urta, almeno alle mie ipersensibili orecchie, udire la voce di Pound che declama il famosissimo pezzo sull’usura, leggermente alterato sulla velocità perché in questa maniera si perde tutta la bellezza della matrice, diretta ascendenza da Yeats che a sua volta l’aveva presa da William Morris. Anche un brano come Dov’è Barilli? che fa molto poesia sonora anni Ottanta, ha però il merito di contenere l’unica sequenza urlata se non incazzata (lascio di proposito all’ascoltatore il piacere di scoprirla).

Sono convinto che il vinile deformato dalla luce dell’infanzia produca ancora suoni eccitanti e durevoli. Questo DNA della poesia aggiunge molteplici facce al cristallo della scrittura grazie ad una oralità che letteralmente esplode come, per esempio, in Gelato al basilico (bonus track); qui la voce si accavalla, si sbriciola nella rima e smarrendosi arriva alla vera purità.

 

DNA della poesia, Animae Noctis, Bandcamp, 2019.

 

22 febbraio 2020

La performance del Laocoonte

 

Conviene andarsi a leggere o rileggere il Lessing che ha scritto lo storico saggio Laocoonte, sui limiti della pittura e della poesia, nel 1766. Lo stesso Barilli segnala all’uopo un’edizione BUR, io ho virato per ragioni di tempo su Google Books scovando la prima edizione italiana del 1832 a cura della stamperia Sormani di Voghera. Al di là del linguaggio obsoleto e dello stile farraginoso che non poco osta la comprensione, s’evince papale papale la distinzione fra arte e poesia, in chiara polemica con il Winckelmann il cui slogan ut pictura poësis ne sottintendeva invece l’equivalenza. Il Lessing ricorre alle categorie di tempo e spazio per sancire che l’arte, la pittura “deve scegliere un solo punto nell’azione”, mentre per la poesia “le azioni sono il primo scopo”. Barilli, a sua volta attinge alla dicotomia saussuriana, per ribadire che le arti visive si avvalgono di sincronie, ovvero danno la rappresentazione in un colpo solo, il quadro appeso alla parete o la staticità della scultura mentre la poesia dispone della diacronia, dispiegandosi in uno sviluppo temporale. Ho l’impressione che il Lessing, al di là del divorzio consumato tra i due contendenti, propenda dalla parte della poesia, “l’eccellenza in cui il poeta di tanto soverchia il pittore, si è che prima di giungere al punto dove comincia l’artista, egli l’ha già condotto per un novo ordine di quadri tutti bellissimi”. Purtroppo, non compie sforzi di citazioni particolari, a supporto della poesia attinge solo ed esclusivamente ad Omero, mentre per l’arte si riferisce al gruppo scultoreo del Laocoonte, di cui esisteva ed esiste una copia presso i Musei Vaticani. Complesso statuario di indomita forza mimetica, ritrae il sacerdote troiano, reo di aver profetizzato l’inganno del cavallo di Troia, nell’attimo supremo in cui tenta invano di divincolarsi dal mostro marino che Minerva, nota supporter achea, gli ha scagliato dall’alto del cielo, irata per tal profezia; nell’impari lotta soccombono anche i due figli.

Questo dogma lessinghiano, ci racconta il Barilli all’inizio del suo studio, dura per tutto l’Ottocento e viene messo in crisi dalle avanguardie cosiddette storiche, Cubismo in primis (Picasso e Braque), ma soprattutto dal Duchamp dei Rotoreliefs che sono “dei dischi metallici fatti ruotare nello spazio” con l’ausilio di piccoli macchinari elettromeccanici. Anche Il grande vetro forte del caso, dell’alea per dirla con Caillois, ha dato il suo contributo all’annullamento delle distanze.

Ma tutto sommato anche questi esempi, per quanto trasgressivi essi fossero, venivano “fermati” al muro, e quindi il Lessing resisteva. Bisogna aspettare l’esplosione del cinema e soprattutto della tecnologia video per affossarlo definitivamente, o forse provvisoriamente. Infatti dopo la sbornia dei video d’arte che scorrono lungo l’asse temporale, forse anche troppo, senza necessariamente svolgere il dato diegetico, a conti fatti l’effetto Laocoonte perdura anche se sotto mentite spoglie.

Il capitolo chiave del libello barilliano è indubbiamente quello che introduce Sua Maestà la performance perché solo a lei spetta l’onore di unire sedandoli i due antagonisti. Già nella Poetica di Aristotele la poesia non era considerata imitazione né tanto meno rappresentazione, ma pura invettiva (psógous), o inno (yninous) o encomio (egkómia) quindi era già una poesia performativa perché insultava o lodava. Purtroppo nel tempo questo aspetto si è smarrito, ritorna in auge dopo secoli con la poesia sonora. A ragione Barilli denuncia che “la nozione di performance ha mille occasioni per essere applicata e sfugge da tutte le parti”. Ecco una delle cause per la quale nei primi anni Ottanta formulammo il Manifesto della Polipoesia, proprio per caratterizzare l’evento live della poesia sonora e differenziarlo dal mare magnum della performance di o del o della. Lo confesso, ho sempre creduto che l’etimo performance avesse a che fare con l’accusativo latino di formam, e invece Barilli scodella un’altra succulenta teoria. Il termine va fatto risalire alla radice neolatina di furn. In Italiano abbiamo il “fornire”, quindi la performance è “l’erogazione di questa fornitura”. “Infatti – conclude il Nostro in maniera inaspettatamente toccante – la migliore e più impegnativa performance che ognuno di noi fornisce altro non è se non la propria intera esistenza”.

Renato Barilli, Una mappa delle arti nell’epoca digitale, per un nuovo Laocoonte, Bologna, Marietti, 2019.

 

 

2 febbraio 2020

C’è voce e voce

 

Davanti a questi studi così articolati e approfonditi mi pongo sempre la stessa domanda, perché gli autori dei saggi con chiara esegesi sulla voce si rifanno ad opere scritte? Per esempio Dolar quando teorizza di “portare la voce al limite dello spaesamento”, cita la nota trilogia beckettiana dei romanzi. Ci sono le validissime eccezioni come nel caso di Serra che compie un’eccitante analisi su Plague Mass della Diamand Galas, oppure Di Matteo che si sofferma su Kinkaleri e il loro I am that am I, ineffabile palindromo divino ma anche eccellente poema permutazionale di Brion Gysin, uno dei fondatori con Henry Chopin e Bernard Heidsieck della poesia sonora nei primi Anni Sessanta. Prendiamo un’altra mirabile affermazione sempre di Dolar, “il linguaggio e il corpo si intersecano proprio nella voce”. Sembra a prima vista uno scontato assioma ma non lo è, e tutte le argomentazioni svolte con arguta sapienza portano alla conclusione che “l’intersezione è proprio la relazione del loro non-rapporto”. E dove si concretizza tale intersezione? In certe pièce di Ionesco dove gli attori agiscono all’esatto opposto delle battute appena pronunciate, oppure nella staticità depistante e tragicamente sfuggente di Kantor. Nel teatro sia esso quello classico che quello d’avanguardia non è facile trovare un impiego della voce che non sia “stampella del testo”. Carmelo Bene in questo contesto è l’eccezione che conferma la regola. Come un caso a parte, purtroppo isolato nel Novecento, riguarda “lo sforzo eroico di Artaud nel tentare di rappresentare l’irrapresentabile”, decostruendo i significati per “rifondare una lingua carnale” (Ponti Guttieres), infatti è lo stesso Artaud a dichiarare “rifaccio ad ogni vibrazione della mia lingua tutte le strade del pensiero nella mia carne”.

“La respirazione è ritmo, pulsazione, alternanza vitale” come giustamente viene messo in evidenza da Licitra Rosa. Ogni attore, ogni performer, ogni parlante si riconosce a pieno in questa affermazione. Il respiro sta alla base di qualsiasi comunicazione orale, manca il respiro all’innamorato timido incapace di estrinsecare il suo amore davanti all’amata, come manca davanti ad uno spavento o ad una bellezza assoluta (il noto mozzafiato), al contrario si gonfia e cresce tra le spire del piacere. In poesia, si va dal verso-respiro di Whitman a quelli beat di Ginsberg e Dylan Thomas misurati sulla lunghezza del proprio fiato, quindi una poesia orale. Altri esempi di uso del respiro in chiave poetico-sonora possono essere ricavati dall’ascolto di La voix libérée, (Palais de Tokyo, Parigi, 2019) o La voce regina, (Biblioteca Sala Borsa, Bologna), citando un nome su tutti, quello di Demetrio Stratos. In questi ultimi esempi, ci si allontana totalmente dal linguaggio sia simbolico che di significato, esso diviene rarefatto,

grazie ad uno stato allucinatorio, sciamanico, e “nell’allucinazione la voce si presenta come articolazione pura” (ancora Licitra Rosa). Si tratta quindi di vera poesia performativa, come già indicato in maniera lungimirante nella Poetica di Aristotele.

“La voce non è fonia, è un oggetto al di là del senso e del suono” (Miller), che tipo di oggetto? Un proiettile impavido come le folgorazioni acustiche dei futuristi russi o una rete ammaliante come pretende l’ultra-lettrismo francese. Ecco, davanti a questi assoluti rumorismi, ci si imbatte in un nulla pulsionale, però “bisogna provare ad ascoltare anche quando non vuol dire alcunché” (Lacan), anzi rincara Bonazzi “ascoltare per Lacan vuol dire sostare”. Mi chiedo in quanti oggidì sostano sulle Empty words di Cage il quale da par suo invitava l’ascoltatore a fare il suo mestiere, cioè ascoltare, non solo, ma se non capiva lo invitava ad ascoltare di nuovo e ancora e ancora, fintanto che non si avverava quell’etica del godimento tanto invocata.

Un godimento personale che ho deciso condividere con il pubblico riguarda la creazione dell’Archivio 3ViTtre di Polipoesia, (in parte donato al The Rodgers and Hammerstein Archives of Recorded Sound, presso il Lincoln Center, New York). “La voce l’abbiamo in mano come abbiamo in mano qualsiasi altro oggetto” (Leoni), non solo, una volta registrata e catalogata, la si prolunga nel tempo la vita consentendole di essere ripetuta ad libitum.

Leggere e sostare su questo preziosissimo volume, vuol dire intraprendere un viaggio scoppiettante e intrigante di novità. All’inizio Dolar punta il dito contro Barthes per dire che la grana della voce non funzionerà mai, tesi poi corroborata robustamente da Serra, anche se nel corso del libro che è il sunto di tre incontri seminariali tenuti nel 2015-16 da un ben agguerrito drappello di filosofi e psicanalisti, Barthes verrà rimesso in circuito (Lentini) e soprattutto nel finale Vergani osa scrivere che “il telos della  voce sarebbe il significato”, forse mai condizionale è d’obbligo dopo che il dogma lacaniano non è mai stato messo in discussione, “la voce non va confusa con la dimensione sonora della parola e tantomeno con il senso che comunica. La voce è un oggetto pulsionale che abita il significante in tutti i contesti sensoriali in cui si manifesta”.

Voce, un incontro tra filosofia e psicoanalisi, a cura di Matteo Bonazzi, Carlo Serra, Silvia Vizzardelli, Milano-Udine, Mimesis, 2018.

 

20 gennaio 2020

Più verità meno falsità

 

Con un sottotitolo come mash up di prose e narrazioni obliquide Marco Palladini si sbarazza in un colpo solo di tutta la zavorra romanzoide ivi inclusa la pestifera “dittatura del plot” per catapultarsi libero da orpelli sia strutturali che tematici in una no man’s land dove scorrazza a proprio agio solo soletto in compagnia dell’inesauribile ed imprevedibile verve creativa, protesa dentro una scrittura-processo e “non progresso”, ennesima prova vivente “a mostrare la vanità della raccontabilità”.

Nonostante tal roboante incipit, qualcosa finisce per novellare, perché, ammoniva John Cage, “non ho niente da dire e lo sto dicendo”, le frasi scorrono fluide, periodi brevissimi, secchi, lapidari a tratti, martellanti come i giambi di Blake. Ça va sans dire, “si gira sempre attorno a se stessi”, indi viene esibita sempre la tanto maltrattata vita che si confonde con la scrittura e viceversa, al punto che fa dire a Mario Lunetta (pardon nel testo Cunetta), che i libri scritti non li ha scritti lui ma la vita che ha fatto. E per quanto siano liquefatti, storti o distorti i personaggi palladiniani, essi stessi sono dirette proiezioni dei tanti suoi Io, o meglio una sinergia di “Ii, anzi Iiiiiiiiiiiiii”.

Il libro spiana all’inizio nel nome e nel segno di Gianni Toti “con la volontà di sbriciolare tutti i totem e tabù del mondo raccontato, raccontabile e raccontante”. In corso d’opera ricompare come suggestivo carattere in La vita intima di Benny e Ale secondo Virginia , “l’ambiguità di Gianni Soti, trentacinquenne operatore di una tivù locale detto dai colleghi ‘fotti-fotti’”, un racconto dove ossessivamente e pedissequamente la narrazione viene svuotata da ogni suo senso con procedimenti a freddo simili a quelli di un film porno che a forza di automatismi e ripetizioni riduce a mero atto meccanico la scopata. Lo scrittore diviene il robot che produce frasi-spam a ciclo continuo.

Laddove invece depone l’odio perché tanto l’ama la Letteratura, emerge la bellezza di una scrittura tutta frizzi e lazzi, ossigenata da un linguaggio “tra vetusto e giovanilistico, inusitato e bizzarro” che è la vera suspense. Il lettore aspetta il pun, il motto di spirito, il neologismo, la parola-valigia, o la riscoperta di termini rari come “malmostoso”. L’autore freme, scalpita e brucia all’istante sull’altare del “comunicare vuoto di senso” il buonismo linguistico o il pettegolezzo come succedaneo letterario, sostituendoli con una girandola fantasmagorica di agudezas che galvanizzano.

Non sazio, con accanimento e tanto ardore sbarella sfrontato il lessico tra colto e volgare, tra millimetriche precisioni scientifiche ed esilaranti associazioni surreali senza disdegnare il calembour, la freddura o l’aneddotica che con rima coatta appiccica ad estetica.

Mettendo più a fuoco la strumentazione adottata, emerge nitida e superba la paronomasia, vero asse portante di tutto l’apparato testuale, “l’adolescenza è il tempo splendido dell’amorezza, poi quando si invecchia viene il tempo cupo dell’amarezza”. Oppure, “non era l’Evento bensì l’Avvento che gli importava”, ancora, “scivoleremo dal Sufismo al Surfismo?” fino ad un irriverente “ma Pasolini li schiacciava i pisolini?”. Non posso tralasciare l’uso dei puntini di sospensione, caratteristica così distintiva come la parentesi lo era per cummings o Sanguineti. Questo trucco ortografico gli serve come stacco, come allusione, come dire “fate voi, concludete come vi pare…io mi fermo qui”. Quando li adotta anche all’inizio di un periodo o di una storia, allora valgono come sospensione, come straniamento, come cambio di piano.

I nomi, anche se leggermente modificati appaiono tutti veri, in genere appartenenti al mondo “radical-scioch” romano, lo stesso dicasi delle tante verità che vengono snocciolate con la nonchalance tipica dell’inetto, colluso, scoglionato se non deluso: “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie” via Samuel Johnson, “l’Italia è una cloaca” (e come dargli torto!), “la politicità intesa come vecchio e borioso engagement è certamente defunta” e il doppio sigillo finale con “il superfluo è la quintessenza della presente epochè” e “sulle tenebre del reale vincerà lo splendore del virtuale”.

C’è infine, una ricchissima colonna musicale che attraversa sonoramente il testo, si va da affermazioni condivisibili verso Chuck Berry definito il vero fondatore del rock, a varie citazioni canzonettare come le bollicine di Coca(ina) del Blasco o “il pene è il mio pane” (Elio e le Storie Tese), con menzioni a iosa di band rockettare e cantanti italioti, si passa da Morandi ad Endrigo per finire con Cocciante e Celentano, manca nella lunghissima lista, stranamente, Paolo Conte perché due versi da La topolino amaranto, “Se le lascio sciolta un po’ la briglia / mi sembra un’Aprilia e rivali non ha”, sarebbero stati un avatar linguistico perfetto per questo libro.

Marco Palladini, Nomi veri falsi, Roma, Empiria, 2019.

 

 15 gennaio 2020

Una  storia di poesia

 

La prima osservazione che mi viene da fare riguarda la funzione del carteggio in chiave letteraria. Questa storia d’amore (ma io di direi di poesia) viene passo passo ricostruita grazie alle centinaia di lettere scritte dai protagonisti. La domanda che mi pongo è la seguente: chi vorrà ricostruire storie letterarie sotto l’aspetto privato accadute in queste decadi dominate dalle email, dai messaggini dei cellulari tra Messenger e Whatsapp, che cosa si troverà davanti? Sono convinto che farà una gran fatica a ricostruire sentimenti o passioni, una volta scomparsa la testimonianza cartacea.

Di questo libro se ne è già parlato tanto che mi limiterò a fare luce su quelle poche zone rimaste in ombra altrove. Anzitutto incombe una strana anomalia che accomuna sia Paul Celan che Ingeborg Bachmann, la carenza di una voce forte che li supporti durante le letture pubbliche. Io che da sempre valuto la voce come il vero corpo della poesia, il rifiuto ad usarla è una grave lacuna. Lui, al convegno del Gruppo 47 a Niendorf, legge talmente male che nessuno l’ascolta. “Patetico” è il commento unanime. Ma come legge questo poeta originario della Bucovina? Legge cantilenando, molto arioso, approntando in poesia lo stilema canoro di un Alexander Moissi ascoltato a Czernowitz. Basta porgere l’orecchio al disco del Moissi per capire che Celan faceva il verso proprio a lui. I modelli vanno sempre scelti oculatamente, penso a Pound che ricalcava Yeats il quale a sua volta si rifaceva a William Morris. Sta di fatto che per capire bene le sue poesie, esse dovettero essere lette da un lettore professionista. Stessa sorte per lei. Forse era succube del panico da pubblico quando si sedeva sulla “sedia elettrica”, così veniva scherzosamente apostrofata la seggiola dove l’invitato dal Gruppo leggeva i propri testi, per ascoltare poi in silenzio le critiche dei presenti. La sua figura orante trasmette un’imbarazzante fragilità, la voce sparisce, i fogli cadono, al punto che un attore deve intervenire. Nelle registrazioni d’epoca in bianco e nero, sembra un automa che legge, mai un cambio di tonalità, mai un’inflessione particolare, anche l’espressione del viso è statuaria, mi ricorda molto la freddezza della voce artificiale creata da un computer.

La loro storia d’amore e di poesia dimostra ancora una volta che “i grandi sono sempre incompresi ed è la mediocrità a dettare legge”. Non c’è dubbio che loro due fossero dei grandissimi anche se capiti e apprezzati a pieno solo dopo le rispettive tragiche morti. Senz’altro una contorta e contrastata storia d’amore ma anche un perfetto sodalizio letterario. Agli inizi, in una Vienna post bellica, lei ventiduenne, (lui ventisettenne), risente delle sue metafore, della sua purezza poetica, della sua igiene linguistica. Una volta che ha raggiunto la maturità, suggella in una prova solida come Malina un’esemplare simbiosi tra la sua scrittura e quella di Celan, un continuo rimando tra le parole dell’uno e le parole dell’altra.

Celan da par suo lascia Vienna e s’invola a Parigi, smarrendo lo smalto amoroso del loro primo incontro. Risponde solo dopo mesi alle infiammate lettere della Bachmann. Poi una notte legge tutto d’un fiato Invocazione all’Orsa maggiore, ne capisce a fondo la portata poetica, ne resta scosso, e ricomincia ad amarla. È sempre la poesia a far fare il primo passo, lui stesso l’ha anteposta a tutto ed ama solo attraverso di lei (la poesia). Rivede quindi nella Bachmann il Senso e lo Spirito che non si separano mai.

Questo ritorno di fiamma è così dirompente che Celan è disposto a buttare all’aria il suo matrimonio con l’aristocratica parigina. Stavola è lei a frenare, come anni prima era stato lui a rifiutarla. Sotto certi aspetti non si sono mai accettati come persone. Quando hanno convissuto, dopo un po’ mancava l’aria, incapaci di vivere il quotidiano, si sono riscattati, però, sul piano poetico, amandosi come poeti, e soprattutto dicendosi l’oscuro, come sintetizza il mirabile verso:

“sono te quando sono io”.

 Helmut Böttiger, Ci diciamo l’oscuro, La storia d’amore tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2019.

 

2 dicembre 2019

The perfect archive non esiste

 

 

Come John Cage nel suo famosissimo pezzo 4’33” richiama l’attenzione sullo sfondo, su tutto quanto circonda l’atto principale, su quel silenzio che poi non esiste, così Paul Lisson, lavora e presenta ciò che in apparenza risulta essere secondario. Potrei dire che nel suo libro capovolge i ruoli, il deuteragonista addiviene protagonista.

Così in maniera arguta e imprevista ricorda un weekend riducendolo all’orario di partenza e di ritorno: Saturday 11:25 a.m. Go / Monday 7:25 p.m. Return. Che importa sapere cosa è successo o cosa non è successo? La vita è più importante della poesia. A cosa serve metter nero su bianco? Quanto inchiostro è stato consumato per dispiegare appunto cosa sia successo o non sia successo! La poesia si è da sempre prodigata in questo tantalico sforzo. E a proposito di inchiostro, il Nostro non sembra affatto interessato al narrare né tanto meno all’oggetto della supposta narrazione, ma solo e soltanto allo strumento usato A steel nib [un pennino d’acciaio], o meglio al materiale impiegato nella scrittura Ink fabbricated from blood & rust, specificando solo la sua posizione geografica 51.0504°N, 13.7373° E / 43.2557°N, 79.8711° W.

Proseguendo lungo questa direttiva depistante o devastante, viene messo in auge il valore recondito degli Errata Corrige. L‘autore lo fa in un modo anomalo perché non li esibisce in relazione al suo libro ma vengono prelevati da altri volumi, per cui, ancora una volta il senso dell’operazione consiste non tanto nella scrittura in sé quanto nella funzione di correzione o riedizione di quanto già stabilito o stampato. Viene spontaneo pensare: e se fosse possibile un Errata Corrige nella vita? Truth still waits / at the bottom of a well [La verità aspetta ancora / in fondo al pozzo]. A volte l’erratum provoca una riflessione linguistica, minimi spostamenti di fonemi per grandi cambiamenti, Page 247, Fig.245: For “Scarf” read “Scharf”. In questo caso è un erratum nullo, in quanto scharf non è termine inglese ma tedesco, semmai l’erratum dovrebbe essere in direzione opposta.

Oppure altrove una volta scelta la parola, la translittera duplicandola sotto, secondo il codice fonetico, con esilarante effetto di ripetizione per allitterazione.

In Je pense que, la rima viene stilizzata con i tipici segnali tipografici, aaBB aBaa ecc., e il suono della supposta rima viene relazionata con piatti cucinati o dolci. Il rumore della bocca che rumina relazionato con la sonorità della rima. Poi emerge nel libro una ossessiva attrazione verso i numeri che mi ricorda la ricerca visiva di Richard Kostelanetz, anche se il Nostro non tende tanto alla visualità numerica quanto all’esibizione fredda del dato, turn 60 / turn old…turn 87 / turn cold.

Da colto bibliotecario ed esperto archivista qual è, lui sa come si organizza o come si organizzerebbe un archivio perfetto, però Guilt is not evidence / A document possesses passive authority. E poiché Memory imitates inertia, si conclude che l’archivio perfetto non può esistere, semplicemente non esiste. Lo si capisce già dalla cancellatura operata sull’aggettivo perfect sin dal titolo stampato della copertina. Non solo, all’opposto di Breton che in Nadja era ricorso all’uso della fotografia come unico strumento capace di catturare fedelmente la realtà, qui, invece, le immagini incluse sono rigorosamente sfocate. Si rifiutano di essere viste e anch’esse, al pari della non-scrittura praticata lungo tutto il testo, rimandano al vuoto, ad una ambiguità inconsistente. Tutto sfugge, solo sfumature esistono.

Come nel finale di Casa di Bambola (Ibsen) o nel Pygmalion (Shaw) spetta all’urlo sbloccare o evidenziare l’impasse esistenziale, anche qui l’urlo fa la sua taumaturgica apparizione:

 

In the winter months

I clap my hand. I

clap.

I clap my hands

around my head and

scream scream scream.

 

Nei mesi invernali

batto le mani. Io

batto.

Io batto le mani

attorno la testa e

urlo urlo urlo.

Paul Lisson, The perfect archive, Toronto – Buffalo – Lancaster (U.K.), Guernica Editions, 2019.

 

 

3 novembre 2019

I manifesti manifesti

 

 

Nell’epoca di Internet tutto o quasi si trova in rete, ma questo libro che riassume i manifesti della poesia sperimentale dal 1946 ad oggi si propone come un necessario se non indispensabile strumento di lavoro per gli addetti ai lavori ma anche per l’attento lettore che voglia soddisfare la propria curiosità conoscitiva. Semplicemente colma una lacuna nel panorama dell’arte contemporanea.

Bene ha fatto l’accorto curatore, Patrizio Peterlini, a scegliere come data d’inizio il 1946, lasciando fuori i già ultra-sviscerati manifesti storici per concentrarsi su quelli che vengono scritti quasi in concomitanza con l’esplosione tecnologica.

Leggendo e rileggendo questo bel volume mi sono balzate in testa le parole di Bernard  Heidsieck, scritte durante forse una delle sue ultime interviste http://www.3vitre.it/ilmovente.htm a proposito di poesia sonora, “Henri Chopin, alla fine della sua vita, ne ha dato una definizione talmente riduttiva che tutto preso dalla sua megalomania non si è reso conto che avrebbe potuto applicarsi solo ed esclusivamente al suo lavoro! Per cui, lui sarebbe l’unico poeta sonoro!”. Loro due sono gli indiscussi fondatori della poesia sonora con Brion Gysin, nei primissimi anni Sessanta, e volendo conciliare, a posteriori, le loro opposte concezioni, potrei dire che Bernard ha calcato più il tasto della performance con la sua poesia d’azione, richiamando l’attenzione sulla visione d’insieme dell’atto spettacolare mentre Henri si è concentrato più sull’aspetto fonetico, per non dire linguistico, dato che lui la parola la voleva distruggere. Le due facce della stessa medaglia!

I manifesti, quelli efficaci, sono quelli che incidono sul corso degli eventi, facendosi interpreti di esigenze colte sul campo, e soprattutto hanno la capacità di provocare quell’effetto domino come nascita di gruppi, adepti, festival, mostre, pubblicazioni ecc. Se ciò non avviene, restano innocui elzeviri. Per esempio, il Plano Piloto per la poesia concreta del Gruppo Noigandres rappresenta ancora oggi un insuperato punto di riferimento, mentre lo stesso non si può dire per il quasi omonimo manifesto scritto da Öyvind Fahlström solo qualche anno prima (1953), testo benemerito (io stesso l’ho pubblicato convinto di fare un’operazione meritoria http://www.3vitre.it/vocedellapoesia.htm) ma non supera la bellezza estetica di un saggio.

Fa piacere che venga citato il Souffle Manifeste (1962) di Pierre Garnier, un aspetto ritenuto erroneamente secondario rispetto allo spazialismo di cui con la moglie Ilse, si è fatto universalmente portavoce. Spingendosi oltre ogni frontiera di whitmaniana memoria, arriva a dichiarare che il respiro coincide con l’universo, anzi è l’universo. Se si ascolta il disco a suo tempo da me pubblicato (3ViTre edizioni, n.4, 1984), si percepisce un eccellente livello di rarefazione sonora che si colloca alla base di molte sperimentazione future.

Tra i tanti manifesti elencati con certosina scansione cronologica, opterei per Max Bense perché le sue teorie stanno alla base di qualsiasi sperimentazione poetica e non. Il prodotto è definito digital perché lascia molto spazio creativo o decifrante al fruitore, ma è anche metonimico in quanto l’autore qualche chiave interpretativa la deve pur concedere per evitare che si brancoli nel buio, e infine il digital viene diluito o annacquato in analogico per renderlo facilmente fruibile.

Mi vien da pensare che davvero non si inventi nulla, questa bella teoria bensiana viene pari pari da Charles Sanders Pierce il quale al posto di digital parla di simbolo, l’artista crea libero da vincoli ed impegni, il tutto va poi interpretato mettendolo in conto al ricevente. Metonimico viene da indice, dove ci si richiama all’ordine platonico dell’imitazione del reale e dei necessari riferimenti che occorre evidenziare onde favorire la tanto discussa comunicazione. Infine analogico è anticipato da icone, ovvero tutto chiaro, niente ambiguità, mimesi tout court, la minestra fumante scodellata sul piatto, pronta da mangiare anche se non si ha fame.

Patrizio Peterlini, Rivoluzione a parole, Poesia sperimentale internazionale dal 1946 a oggi, Manifesti e testi teorici, Ravenna, Danilo Montanari Editore, 2019.

 

 

17 ottobre 2019

Eduard Escoffet

 

 

Eduard Escoffet: potrei dire ardo con duro sguardo ed esco e ti faccio a fette. Già il suo nome e cognome parafrasato o deformato è un programma sonoro. L’ho conosciuto l’Eduard Escoffet a Barcellona quando era ancora un teen-ager, poco più che ragazzino. Aveva una foltissima capigliatura alla Jimi Hendrix, uno sguardo attento, curioso, avido di scoprire che cosa e perché, per cui nessun particolare, nessun accorgimento della performance gli sfuggiva, soprattutto nelle veladas notturne organizzate nell’underground barcellonese da Xavier Sabater. Erano i primi anni Novanta. Quello rappresenta il suo apprendistato ed è quello che alla lunga, fa la differenza oggi. Un conto è visionare un filmato storico su YouTube, un conto è vivere dal vivo i protagonisti del circuito internazionale.

Ascoltando la sua pagina su Soundcloud, tra gli otto poemi sonori caricati, ce n’è uno che è un gran capolavoro, si tratta di Parla tu també / Sprich auch du del 2007, rimasterizzato nel 2018, quindi recentissimo. L’ho ascoltato più volte e come succede con l’eros, più lo ascolti e più hai voglia di riascoltarlo.

Il poema sviluppa la nota poesia di Paul Celan, ne riprende oralmente alcuni passaggi chiave, “parla anche tu…dì cosa pensi… non dividere il sì dal no… dà senso anche al tuo pensiero, dagli ombra”. Qui si tocca con mano, anzi con orecchio, la differenza concettuale e pratica tra un testo scritto e un testo sonoro e soprattutto si percepisce come la poesia sonora, se adeguatamente supportata da un progetto calibrato, possa comunicare i Grandi Temi della Vita. Scrivo questo perché purtroppo è successo e succede che, a volte, i poeti sonori si disperdano in vacui barocchismi fine a se stessi.

Lui tende più all’oralità che alla vocalità, almeno in questo poema, anche se va detto che la mescolanza di lingue (italiano, catalano, tedesco), provoca un inaspettato tasso di vocalità (chissà se la parte tedesca è la vera voce di Celan?). L’approccio verso le parole è quello tipico da reading, c’è una sacralità tutta di marca Heidsieck verso il corpo della parola esibito nella sua integralità. Spetta pertanto al modulo tecnologico il compito di spezzare questa monotonia seppur poliglotta, avvalendosi di un montaggio che riesce a trasfigurare il contenuto e a far lievitare la parola in multiparola.

A questo punto le parole, wandernder Worte, diventano davvero errabonde, si spostano imprevedibili e imprendibili a differenza della fissa statica scrittura, sono farfalle svolazzanti, sostenute metodologicamente da una ripetizione sempre più incalzante e soprattutto da un basso continuo, una sequenza di “parlaparlaparla” che funge da contrappunto sia linguistico rispetto alla linea principale del testo orale sia musicale (essendo molto ritmato, richiama molto l’uso della chitarra basso del rock).  A questo punto il poema è perfetto e produce «ombra sonora»al pensiero, anzi è un invito reiterato a parlare. Ascoltandolo, il fruitore è invogliato davvero  a prendere la parola. L’invito orale è sicuramente più forte di quello scritto.

La voce consente una libertà spaziale impossibile per la scrittura. I suoi poemi tuttavia, sposano quel concetto caposaldo dello strutturalismo che era anche il presupposto teorico della mia Polipoesia, ovvero, il particolare in sé non ha valore, ma ha senso solo se relazionato ad un «tutto», ed in questo «tutto» la voce ancora una volta, svetta e domina. Infatti in un altro poema di questa serie Soundcloud, ripete ad libitum «parlo» come se fosse ossessionato dall’atto di emettere suoni. E di fatto potrebbe andare avanti all’infinito, come se  il CD o il vecchio vinile si fosse inceppato sul giradischi.

Ora, ma è sempre stato così, è difficile escogitare novità in poesia sonora. In qualche modo, se si guarda alla storia della poesia sonora stessa, le innovazioni sono rare e ciclicamente rimbalzano di generazione in generazione: il rumorismo di Russolo si riflette in Chopin (anche se ottenuto in modo diverso) e nei gargarismi labiali o gutturali di Nobuo Kubota. Quindi poco importa che a tratti si avverta, per esempio una citazione da Ide Hintze, importa invece che Eduard abbia trovato un suo stilema, frutto di un equilibrato dosaggio tra elettronica e sperimentazione linguistica all’interno del quale lui si ritrova a suo agio e solo mantenendo tale equilibrio riesce ad estrinsecare la sua ricerca ed a comunicare al mondo il suo essere poeta.

Eduard Escoffet,  Soundcloud, 2019.

 

 

29 settembre 2019

Poesía Acción

 

Non sono molte le pubblicazioni che escono in tema di poesia sperimentale. Come sempre e quasi da sempre, spetta agli stessi autori farsi portavoce del verbo verbo-voco-visuale, in assenza di editori coraggiosi. E dire che la galassia polipoetica per usare un termine a me caro, pullula di grandi fermenti e di stimoli in ogni parte del pianeta, come dimostra questo bel volumetto curato da Silvio de Gracia che mette a fuoco la performance di poesia. Viene lanciato dall’Argentina. Il Sud America si pone spesso come valido antesignano di movimenti che influenzano la poesia internazionale, sto pensando alla Poesia Concreta dei fratelli De Campos e Pignatari ma anche alla Poesia Intersignos di Philadelpho Menezes, (del quale viene riprodotta una sua tipica tavola visiva).

Il termine poesía acción, poésie en action, viene da Bernard Heidsieck che lo ha coniato nei primi anni Sessanta per rivitalizzare, a suo dire, la poesia scritta morta e sepolta da tempo. Non era solo un inno alla corporalità del performer ma anche alla voce, soprattutto alla voce. Nella Parigi di quei primissimi anni Sessanta, agivano anche altri due soggetti che rappresentano l’origine della poesia sonora, Brion Gysin e soprattutto Henri Chopin.

La voce al cospetto dell’immagine, ma anche del corpo sembra soccombere, in realtà ha sette vite come i gatti, non muore mai.

Al limite anche un corpo silente parla, a saperlo intendere. La poesia è azione certo, il corpo può sostituire le parole, “el cuerpo reemplaza a las palabras” come viene scritto nel bel saggio introduttivo, ma alla fine il suono fonetico o musicale completa l’evento e non se ne può fare a meno.

Nel caso della Polipoesia ritengo che sia la voce l’elemento più importante, la prima donna, come scritto nell’omonimo manifesto, ma anche laddove la voce manca, la si sente presente. In questo tipo di sperimentazioni, non si può rinunciare né alla vocalità che all’oralità, altrimenti si devierebbe nella body art o nella performance d’artista.

In tutte le performance antologizzate nel DVD che viene venduto in allegato al fascicolo bilingue (Spagnolo e Inglese), la voce le attraversa come una entità solida e ben definita. Julien Blaine, al di là della dichiarazione di morte della poesia, usa la voce per creare il contrasto tra la tenerezza delle carcasse di animali che usa come scarpe o culla come bambole e la crudeltà provocata dalla scomparsa della poesia stessa. Anche José Calleja, pur rifacendosi ad una visualità forte come la lettura del periodico, avverte la necessità di usare la voce a corredo se non come elemento guida del lavoro, soprattutto quando con lo spray scrive parole sul muro. Così in una performance toccante ed seducente come quella di Chiara Mulas, il suono vocale sardo la completa alla perfezione, ad un certo punto non si capisce più se la fatica la fa lei nel terribile ruolo di donna-animale da soma o la voce ad uscire di bocca al cantore. Bartolomé Ferrando, pur non parlando, rimanda al suono, in un lavoro dal chiaro impatto concettuale e dalle evidenti implicazioni ecologiche. Invece nelle performance di Akenaton siamo  di fronte al trionfo degli oggetti, in questo caso sono gli strumenti (una sedia nel caso di Philippe Castellin), (una tuta mimetica per Jean Torregrossa), a parlare, anzi ad urlare. Urla anche come uno slogan scandito da una folla in sciopero, la coppia di sillabe Pan Paz, la classica performance callejera di Clemente Padin nella sua semplice ma efficacissima paronomasia, esibita su cartelli come se il poeta partecipasse ad una manifestazione politica.

HOTEL DADA 14 POESÍA ACCIÓN, Revista de Arte Correo y Poesía Visual, N°14 Poesía Acción, Buenos Aires, Hotel DaDA editor, luglio 2019.

 

22 settembre 2019

Le Parole del Silenzio

 

Peccato che se ne sia andato quando ero all’estero, peccato! Dopo aver letto il suo libro sui santi della chiesa di Renazzo, sarei andato volentieri a trovarlo, avrebbe acceso (come sempre) le luci sul guercinesco San Sebastiano e avremmo avuto la nostra giusta conversazione partendo dai San Sebastiani vari per arrivare a quello dipinto dal Mantegna alla Ca’ d’Oro (il mio preferito). Scambi approfonditi di conoscenze o opinioni tra due persone divise da diverse visioni esistenziali ma uniti da reciproca stima ed affetto. Questa ricerca sulla santità rivela a pieno la sua personalità di studioso puntiglioso e ben documentato. Domina la materia trattata con un linguaggio sciolto, preciso, a tratti ricco di latinismi e anglicismi, nel contempo leggibilissimo perché non perde mai di vista lo scopo principe di divulgare in maniera diretta un tema di non facile comprensione. Leggendolo mi pare di sentire tangibile la sua schiettezza, la sua immediatezza, un sacerdote colto senza fronzoli abituato ad affermare “pane al pane e vino al vino”, per usare un aforisma che gli sarebbe senz’altro piaciuto.

Ogni santo viene trattato attraverso la stesura di un’accurata ed ampia biografia. Il Nostro prosegue col redigere miracoli ed eventi che ne arricchiscono la figura umana, per chiudere il cerchio facendo riferimento alla tradizione locale con tanto di preghiera stilata ad hoc. Con un’abile regia comunicativa riesce per ogni santo o santa a mettere ben in evidenza quel momento supremo che sancisce l’incontro magico con Dio. Qui si rivelano tutto l’orgoglio e la potenza di chi possiede la fede. E lo fa con tale semplicità da rendere normale un atto invece abbastanza eccezionale. Non rinuncia al rovescio della medaglia, ovvero a lanciare frecciate verso il clero quando era, soprattutto in epoca medioevale, più attratto dal potere temporale che da quello spirituale. Lui stesso era un religioso tutto d’un pezzo, non avvezzo a compromessi, questo tratto coriaceo ben occultato dentro quell’aura gioviale e perennemente sorridente non gli consentiva di soprassedere quando avvertiva comportamenti non consoni all’ambito clericale.

Toccante fino alla commozione il ricordo di Sant’Elia Facchini, il santo della zona essendo nato a Reno Centese. Riscatta in positivo le ombre di certe spedizioni cosiddette cattoliche verso l’America Latina. Lui predicò nella Cina della seconda metà dell’Ottocento dispiegando un fervore e una dedizione assoluta accanto ad un’opera intellettuale di grande livello sia letterario che filosofico.

Il libro, però, sa anche dilettare snocciolando curiosità ed amabili sottigliezze. Di San Rocco, nato con una croce vermiglia sul petto, (un angioma) si ricorda il sanrocchino, il tipico tabarro o tabarrino che usava indossare. Nel suo armamentario di eremita dedito alla cura degli appestati, non manca mai la conchiglia, (il bicchiere per bere alle fonti) che è anche il simbolo dei pellegrini sul cammino di Santiago di Compostela o lungo la via Francigena. Apprendiamo con stupore che Santa Cecilia, nota patrona dei musicisti, in realtà non c’entra nulla con la musica. Alla base del fraintendimento ci sarebbe un’errata interpretazione dell’antifona di introito alla Messa per celebrarla, non “cantantibus organis” ma “candentibus organis” ovvero gli strumenti di tortura per il suo martirio. Infine il notissimo Sant’Antonio da Padova è portoghese purosangue, essendo nato a Lisbona nel 1195 e solo negli ultimi tre anni della sua vita predicò nel Veneto, in particolare a Padova dove contribuì a sradicare la mala pianta dell’usura.

Il libro si propone anche come valido argomento di riflessione, ricco di spunti attualissimi. Rileggere per esempio, Santa Rita da Cascia in relazione alla piaga dilagante dei femminicidi, oppure la lezione di San Bruno che verso la natura aveva un’adorazione mistica, mentre oggi viene vista come un “qualcosa da conquistare e sfruttare”, e non più “una riserva di significati simbolici fatti per arricchire il mondo interiore dell’uomo”, (così Giovanni Piana, un filosofo scomparso solo pochi mesi fa nel cosentino, le stesse zone del santo in questione). In questo afflato naturalistico dove si rischia di perdere per sempre quell’incanto cui San Bruno anelava, “forse occorre diminuire i decibel del nostro mondo circostante e ascoltare di più le parole del silenzio” conclude saggiamente Don Ivo.

Questo libro (che dovrebbe essere diffuso da un editore all’altezza), diventa un’insostituibile guida per chi voglia visitare la chiesa di Renazzo, anzi noi auspichiamo che si organizzino dei tour con tanto di soste davanti ad ogni tela o scultura arricchite da presentazioni mirate. Sarebbe un modo per ricordarlo sine glossa come lui stesso amava dire della predicazione di San Francesco.

Don Ivo Cevenini, I Santi della Chiesa di Renazzo, s.i.p., Renazzo, 2018.

 

 

17 agosto 2019

Ermini: Edeniche ed Edoniche

 

Giusto esatti 40 anni fa, agosto 1979, conoscevo di persona Flavio Ermini, lo avevo invitato ad una collettiva di poesia visuale, Itinerari per una Alfabetizzazione alla Rocca di Stellata, a quel tempo fervente centro culturale, assai in auge. Tal cognome richiama Aperti in Squarci, benemerita rivista d’avanguardia, nata a Verona anche grazie ad una figura come Franco Verdi. Probabilmente questa mia tirata nostalgica c’entra nulla con il presente o forse c’entra perché il futuro è sempre figlio e conseguenza del passato.

Se la poesia esprime sempre uno stato d’animo (Bergson), allora qual è lo stato d’animo di Edeniche? Anche se non c’è “strada alcuna che porti alla salvezza”, questo poetare forte del suo darsi iniziale veleggia verso un purismo primitivo o meglio verso un primitivismo naturale ed universale dove alberga ancora la parola originaria ante rem e quindi la vera età fantastica della Poesia, in ossequio alle note teorie vichiane. In maniera edenica, ma anche edonica, il testo si dipana nervosamente alla ricerca del “sangue che bagna costantemente il cuore” o delle “forme elementari del soffio e del respiro”,

Leggendolo tutto d’un fiato, il lettore si porrà la seguente domanda, questo poetare è frutto di ragione o di immaginazione? Il poeta ha le sue tesi da dimostrare, per cui a tratti pare che la ragione, sulla quale fa leva il suo pensiero, prevalga a netto discapito di un’immaginazione pertanto impoverita. Invece la ragione viene contenuta in termini, come dire, ragionevoli e finisce per arricchire l’immaginazione alla quale spetta il compito di consegnarci versi esemplari come “d’incedere lieto verso il giardino/tra grumi ordinati d’inchiostro e di cera” oppure “nel declino dell’uomo verso la rupe dell’onda” o anche “l’onda pietrosa su cui l’altare trova fondamento”. Alla lunga esce vincitrice l’immaginazione anche perché solo essa ha il grande merito di persuadere gli uomini (Pascal).

Questo dualismo ne richiama direttamente un altro. Il Dr.Johnson riteneva che solo ciò che è generale è poetico, a differenza, per esempio di un Novalis il quale era convinto che più personale, locale, temporale era una lirica e più si avvicinava al nucleo della poesia!

Ora, qui filtra abbastanza nitida la personalità e la presa di posizione del poeta, ne fornisco alcuni assaggi tra i tanti: “con la terra che ancora non abbiamo imparato ad abitare”, “non c’è scampo nell’esodo che si rivela senza fine/lungo il quale l’uomo non trova che insensatezza”, poi “prelude al pianissimo di un lamento il dolore/che non ama farsi udire” e ancora “nel far sì che l’umano essere sia sostituito/da un susseguirsi ininterrotto di simulazioni” e infine “quale testimone dell’oscurità che si cela/nell’impreciso vuoto del presente”. Sorprende che la figura femminile faccia una sola ed unica comparsa a pagina 120 verso la fine del libro e appare (o scompare) dentro un’aura contraddittoria, “sorge e sorge la donna che nell’azzurrità appare/con le sue larghe braccia all’erompere dalla terra/senza mai potersi compiutamente mostrare”.

Come viene costruita l’impalcatura di questa scrittura? Le stanze scorrono via in varie dimensioni oliate da serie di aggettivi relativi e congiunzioni, così la lunghezza dei versi cui pare non venga attribuito particolare valore sillabico con cesure sancite più dal ritmo del pensare che da esigenze metriche (ho contato solo una rima in tutto il libro “garantire/assentire”). Bando a qualsiasi segno di punteggiatura, parole nude e crude da sole pronte a reggere il peso del comunicare senza pause se non l’enjambement o l’a-capo. L’autore stesso scrive: “impossibile tracciare un limite tra sensato e insensato. Il linguaggio è il vincolo essenziale che tutti ci lega a una medesima origine”. Vero. L’andamento come si evince dalle citazioni fatte è nettamente prosastico, un procedere spiraleggiante che finisce per ipnotizzare il lettore, pigiando spesso il tasto di continue ripetizioni al limite dell’ossessione vedi “la sorella del sonno” (eufemismo per morte?), il “giardino” e il sentitissimo leitmotiv delle “ali” che spuntano da ogni dove, portando con sé vento, motori  e quindi movimento. Davanti al dubbio platonico, “nell’impossibilità di decidere tra l’antro e l’apparenza”, azzarda una soluzione ermetica del tipo, “fino a capovolgere l’anteriorità in puro atto di sottrazione”. Non ci resta altro, allora, che leggere o scrivere versi anche se “i mortali statuiscono di parlare/pur essendo destinati a perdersi nel tumulto”. E questa è forse l’àncora di salvezza cui è ancora possibile aggrapparsi a dispetto del “profondo degrado dell’umano progresso”.

Flavio Ermini, EdenicheConfigurazione del principio, Bergamo, Moretti&Vitali, 2019.

 

8 agosto 2019

Poesia Visuale Argentina e Catalana

 

Capire agli inizi degli anni Novanta fino al nuovo secolo che la rivoluzione informatica non avrebbe bloccato o peggio boicottato lo sviluppo della Poesia Visuale, ha rappresentato il baluardo di un’estrema resistenza fino a certificare l’assoluta certezza della sua sopravvivenza. Inoltre, come scrive giustamente Albert Calls, riprendendo peraltro un’idea già lanciata a suo tempo da Ezra Pound, il locale oggi più che mai, è globale, e pertanto una ricerca di nicchia come quella della Poesia Visuale, trova molteplici ragioni per esistere. A giudicare da questa antologia …xyzA-Cdef…, ma il discorso si può ampliare alle pubblicazioni che escono quasi a ciclo continuo sotto questa sigla, la Poesia Visuale ha poco da spartire con i precedenti e già storicizzati movimenti come quello della Poesia Concreta (penso al Gruppo Noigandres), quello della Poesia Visiva (penso soprattutto al gruppo italiano capitanato da Pignotti, Sarenco, Marcucci, Perfetti ecc.) e anche alla Nuova Scrittura (nel senso in cui l’ha teorizzata Ugo Carrega). La Poesia Visuale si avvale della classica unione di immagini e scrittura,  nessuno dei due elementi sembra prevalere, alla fin fine avviene una fusione verbo-visiva, come si usava dire negli anni Sessanta, che finisce per dar corpo e vita ad un nuovo e terzo prodotto, seguendo spesso i canoni di una eufonia visiva agile nel blandire gli occhi e nel contempo stimolare la mente. Quanto vengo scrivendo lo si ritrova facilmente in un autorevole capofila longevo e tuttora attivo come Klaus Peter Dencker, e anche in questa antologia di cui sto trattando.

Analizzandola pagina dopo pagina, si evince immediatamente che la manualità è stata sostituita dalla mobilità del mouse, la colla e di conseguenza il collage dal copia-incolla del software adottato.  Questo succede [versante argentino] nelle opere di Luis Pazos, Claudio Mangifesta, di Ladislao Pablo Györi e soprattutto in quelle di Fabio Doctorovich, mentre il richiamo alla vera fisicità della scrittura e dell’immagine resiste in Hilda Paz, Diego Axel Lazcano e in Silvio De Gracia. Nel versante catalano, esemplari perfetti di Poesia Visuale si ritrovano in Gustavo  Vega, Xavier Canals y José Maria Calleja, dove la costruzione del poema risulta controllato in ogni suo dettaglio al fine di una diretta comunicazione.

Joaquim Brustenga-Etxauri, per ribadire l’importanza delle vocali, le colloca sotto un’ombrella aperta come riparo da una pioggia di consonanti. Toni Prat in Matematicopoema núm 30 (2018), mi sorprende perché dislocando coppie di sferette rosse, i segni inequivocabili della divisione, su rette diagonali, ottiene la moltiplicazione del senso. Così Jordi Badiella in Alt e amor (2018) a prima vista sembra voler ripetere un tipico poema manoscritto di William Blake, invece a ben guardare (sempre necessario interagire con calma verso ogni aspetto di questi poemi visuali, mai liquidarli in fretta con una semplice occhiata), compie un vero atto d’amore non solo verso l’azione dello scrivere ma anche verso un carattere di scrittura pre-gutenberghiano (il canon, peraltro da me adorato) rendendolo ancora attuale.

 

J.M.Calleja con Dietari 015, note visuali composte nel periodo tra il 15 di maggio e il 20 di ottobre del 2015, dimostra ancora una volta come si possa manifestare la propria weltanschauung anche usando un mezzo povero come quello cartaceo. Le sue tavole hanno sempre un punto di inizio e un punto di arrivo, prende il lettore-spettatore per mano e lo accompagna fino ad un certo, poi lo lascia libero di tirare le sue conclusioni. In Dilluns, 10 d’agost (per inciso il giorno del mio compleanno) incolla un ritaglio di giornale con la lista di incontri a luci rosse, a fianco, non a caso, quattro crocette rosse, mentre in Dilluns, 5 d’octubre, l’opera più intrigante di tutto il libro, vediamo un muro di scatole da scarpe, al posto del numero della calzatura, leggiamo anni dal 1925 al 2015 disposti nel perimetro che funge da contorno dentro al quale figurano tre file di lettere sempre in rosso come le date.

…xyzA-Cdef…, Antologia di Poesia Visuale argentina e catalana, a cura di J.M.Calleja e C.Mangifesta, Badalona-Buenos Aires, Editorial Tiempo Sur, 2019.

J.M.Calleja, Dietari 015, Badalona, Pont del Petroli, 2018.

 

 

28 luglio 2019

Paolo Valesio: la Prosa che si fa Poesia{viceversa}

 

Se lo scopo è “erodere il terriccio del senso comune”, ebbene statene certi, esso viene eroso. “Il cappuccio, dunque, è rovesciato:/rivelando il capogrosso, il caporitto, caporosso -/l’organo insomma che denudandosi segna la Caporetto/di ogni castità.” La parola Caporetto nel lessico italico suona a sinonimo di disfatta, mentre se la si erode spezzandola in Capo Retto, sembra qualcosa con il capo eretto, alias il praeputium simile ad un caputium. Tutto ruota attorno all’atto del glubere, dello scorticciare, del pelare, dello scappucciare. Il tema più vecchio al mondo, qui è messo sotto gli occhi del lettore come un continuum che non accenna a placarsi. Dalla «schiavòttola» [serva, schiava] si passa alla parola-valigia «pellucida», passando dallo spagnolo «gozar» all’emiliano «guzèr» attraverso “traslazione macaronica per disperazione”. Poi tutto un turbinio di vezzeggiativi, ditini, alucce, attucci, cazzetti cazzolini per finire nei paraggi di Baffo “«dime porca,/che me piase»” se non nel gergo crapulone pre-Dolce Stil Novo, “se lo tiene tra le pocce”. Questo spinto contesto conforta “la volgarità vera della/vita, che rassicura” al punto che non esita il Nostro ad essere persona femminile, “qui:/lo scrivitore s’identifica  con la fanciulla.” Questo fregolismo convinto soprattutto ne I dialoghi dei morti, gli facilita una dichiarazione che è tutto un programma (dopo la descrizione di un sogno dove la donna denunciava inorridita l’assalto cutaneo di tanti scarafaggetti ), “ma tu, cara mia, sei proprio una maniaca; sei ossessionata da quella cosa lì, non parli d’altro”.

Però “l’estasi è sempre… colpevole”, l’uomo deve divenire un «ingesuato», consapevole che “Gesù è il primo e più vero anti-Cristo” e in Gesù trovare “un fratello pronto al sorriso” che “sa distinguere la pazienza dall’inerzia”.  Il tema del divino, l’alto si attorciglia col volgare, il basso, dando vita ad un unicum dove i ruoli si scambiano, l’alto diventa basso e viceversa, “ma vita?” “E qua’ vita?” La vita  è una «Folco-poesia» (“antica violentata lirica del bifolco”).

È attento a non far gravare sul verso uno squilibrio esistenziale, [troppo espressivo lo stile tradizionale], pertanto tende a mantenere una maschera a parziale copertura del senso. A ragione opta nella prefazione per il concetto di «forma del contenuto» a discapito di «forma dell’espressione» perché urge sempre comunicare in primis, anche con “toni erronei ed erratici”. E qui arriva inevitabile la vis polemica: il limite della postavanguardia, a suo dire, non è l’oscurità, peraltro praticata con ingegnosa disinvoltura lungo tutto il testo (ancora un’esemplare parola-valigia: «manustrupazioni»), quanto il “rendere espliciti certi conflitti di mente,/società, cultura/che richiedono una riflessione più sostenuta”. E questa riflessione, quando viene svolta nei dovuti modi, è ingiustamente tacciata di «accademismo». Paul Zumthor, a proposito della poesia sonora, sosteneva che anche attraverso quel tipo di ricerca, per quanto rarefatta essa fosse, era possibile fare Letteratura con L maiuscola. Occorre la consapevolezza estetica del poeta che deve saper trattare all’interno del modulo linguistico adottato, le tematiche elevandole all’altezza del mondo, dimenticando la società, senza l’alibi di un maggiore o minore sperimentazione.

Paolo Valesio, Prose in Poesia, Milano, Società di Poesia-Guanda, 1979.

 

3 luglio 2019

Tino Pelloni e «l’Idea»

 

C’è un suo autoritratto del 1925, “cauto nel guardare, ma chiaro d’occhio, grande di piglio ma senza ostentazione” (Francesco Arcangeli), molto indagatore dietro un tratto quasi femmineo, rapido nel rapirci dentro uno sguardo persuasivo e suadente, in piena condivisione con tetti, cupole e Ghirlandina della sua Modena, vista dall’alto del suo studio. Certo, affiora nel tratto ancora il rigido schematismo del post cubismo (leggi anche espressionismo tedesco, Die Brücke), intrapreso come rampa di lancio verso un’irreversibile spoliazione del soggetto e del suo colore corrispondente. Un’ascensione la sua, costante nel tempo, tesa a raggiungere l’esile, e appena percettibile purezza della sua cifra pittorica.

Tra questo autoritratto e l’aneddoto che mi accingo a descrivere passa quasi mezzo secolo, ma che importa? L’arte rispetta solo se stessa e chi le offre dedizione assoluta. Succede che una bella mattina d’estate dentro una casa delle vacanze lunga la Riviera Adriatica, il Nostro è già al lavoro sin dalle prime luci dell’alba. La signora balza fuori dal letto, e scende in fretta ancora in déshabillé per farsi un caffè. Sorpresa dall’inaspettata presenza del pittore nel tinello, accenna a rassettarsi, a darsi un contegno presentabile. Lui la blocca, “No, ti prego resta lì come sei!” e incomincia a disegnare, a stendere la mestica. Così preso dalla frenesia creatrice che riesce solo a mormorare, “Tu sei un’Idea”. E dopo un po’, “Non ti muovere!”

Ecco, qui sta il nocciolo del suo operare visivo. Quella che lui chiama «l’Idea» è il trionfo dell’etereo sfuggente ma eterno contro l’immanente materiale ma caduco.  Il corpo e con essa la realtà può essere azzerata, non conta più. Conta invece la sfumatura adombrante come la nebbia padana, una scia “postinformale” (ancora Arcangeli). Scarta l’approccio materialista di marca aristotelica per stabilizzarsi dentro la durevolezza evanescente dell’Idea, rappresentata dal ritratto della donna-musa ancora scarmigliata e in vestaglia da camera. Quel ritratto femminile fila dritto verso la quintessenza della bellezza, in piena armonia coi dettami platonici. È la bellezza dell’Idea in persona.

In quanti si sono cimentati nel passato su questo tema! Dalle varie Susanne coi vecchioni, a certi nudi di Hayez fino a Franz von Stuck, passando per i vari Fragonard, Ingres…

L’irresistibile richiamo della figura femminile senza orpelli, senza trucco, senza inganno, trova qui la sua più piena adesione sviluppata attraverso l’accenno dell’immagine. Assurge alla base della composizione quell’emanazione del reale inteso come suggerimento, ovvero una stilizzazione essenziale che fa vibrare corde profonde a noi che guardiamo il quadro. Non siamo solo di fronte ad una semplice o complessa superficie, siamo di fronte alla Vita, quella Vita fissata con l’autenticità di chi l’ha resa universale.

Tino Pelloni, Galleria della Sala di Cultura, Biblioteca “Luigi Poletti”, Modena, 30 ottobre-28 novembre 1971.

Tino Pelloni in Francesco Arcangeli, Arte e Vita, Pagine di Galleria 1941-1973, Bologna, Accademia Clementina, Massimiliano Boni Editore, 1994.

 

18 giugno 2019

Andrea Samaritani: Pittore fotografo o fotografo pittore?

 

È un dato di fatto che alla seconda decade del nuovo millennio quando la super tecnologia permette ogni sorta di scatti, il Nostro decida di azzerare il tutto e ripiombarsi nell’Ottocento, quando le prime foto in bianco e nero venivano colorate a mano. Sembra la sua, quella tipica cocciutaggine di bastian contrario.

Perché? Perché lui vuole essere bivalente, percorrere la carriera del fotografo, e in effetti l’ha percorsa e la sta percorrendo con incontestabile successo, e nel contempo dipingere, sua recondita passione, passione che coltiva da sempre e per la quale si è da tempo preparato. In sintesi la fotografia e il suo doppio, parafrasando Artaud, con l’innegabile vantaggio che il processo viene svolto interamente dentro la factory domestica. Continua a raccontare il suo mondo, cogliendo i momenti esistenziali, politici, civili, paesaggistici e perché no, emotivi, che gli sembrano degni di essere consegnati all’eternità. E già questa è una bella contraddizione! Vero che appena scatta la foto essa fissa un qualcosa che sfugge, non c’è più davanti nella reale realtà, quell’attimo di vita è appena passato, ma, paradossalmente, quell’attimo viene reso visibile e vivibile per sempre, data e non concessa la deperibilità cartacea o digitale che sia.

Quindi la fotografia risulta essere un sunto perfetto di morte e di vita. Ad Andrea Samaritani questo non basta e non gli può bastare perché qui scatta la seconda fase.

L’immagine in bianco e nero che ha davanti, sul tavolo da lavoro, diviene una tela bianca su cui stendere il colore. L’ineffabile sfida del pittore davanti al vuoto, dico vuoto non a caso perché penso che Andrea quando si appresta a dipingere, «non veda»l’immagine che ha sotto gli occhi. Lo dimostrano i grumi spaziali di colore steso in modo informale, colore che invade le fisionomie, spersonalizzandone i lineamenti, anzi le sue figure così rarefatte assurgono proprio ad un livello universale liberandosi di quella zavorra datata che la condannerebbero a sicuro deperimento. Anche qui la dissoluzione porta all’infinito.

Non c’è dubbio che l’iniziale fotografia in bianco e nero viva hic et nunc una rinascita, intraprenda una nuova vita, forte della cromatica vestizione. Merito della manualità del pittore in azione, il colore assume toni personalizzati, diventa surreale perché la realtà può aspettare, per cui il cielo diventa giallissimo, o arancione o sparisce del tutto sotto una nuvolaglia alla Turner.

Ora, laddove il fotografo soccombe davanti al pittore, altrettanto si può dire del pittore che cede il passo al fotografo, la realtà è che i due vivono in perfetta e proficua simbiosi, traendo linfa vitale dal connubio gemellare, l’una aiuta l’altra e viceversa, e non potrebbe essere altrimenti!

Omaggio al Po, Museo Archeologico “G.Ferraresi”, Stellata, Ferrara, gennaio-febbraio 2016.

Fotodipinte 2006-2016, Firenze-Bologna, Alinari-Minerva, 2017.

Le stanze fotodipinte della Collezione Cavallini Sgarbi, Ferrara, Fondazione Elisabetta Sgarbi, febbraio-giugno 2018.

 

8 giugno 2019

Pulze e il pulviscolo

 

Verrebbe facile, troppo facile, definire Giovanni Pulze, painter on the road, o meglio about the road, considerando anche le sue recentissime personali a San Francisco e New York note culle della beat generation. La strada è una scusa per elevare al rango di protagonista quella common people che altrimenti non godrebbe mai della ribalta accesa. Ecco, lui sa accendere i riflettori su l’attimo di vita vissuta, e lo fa con un cromatismo coinvolgente, al limite dell’ipnosi, che se non fosse per quelle palline bianche (i fiocchi di neve), ci sarebbe da restare in estatica contemplazione per un buon tratto di tempo. Non a caso ho usato il termine people/gente, perché spetta al gruppo, al collettivo, ai passanti, ai viandanti reggere il peso totale della sua visione, e lo dimostra il fatto che questi personaggi non hanno volto, l’everyman si potrebbe dire, l’uomo qualunque messo in mostra.

Non solo l’occhio viene blandito se non appagato da questa cascata iridescente, ma anche l’olfatto viene adeguatamente stimolato perché dalle sue tele trasuda l’odore della pioggia caduta sull’asfalto o della neve che si scioglie, o della calca che respira affannosamente abbottonata dentro caldi cappotti, col collo avvolto in morbide sciarpe. Questa umanità varia, indaffarata, tutta presa dal proprio particulare, intenta a inseguire il proprio scopo, dislocata lungo un marciapiede o dispersa in una bella piazza, ci trasmette immediato il gelo rigido degli inverni nostrani. Ci assale una folata di freddo da farci rabbrividire. Il buio serale aumenta questa sensazione di esserci, e presto non esserci più.

Non basta la presenza dell’angelo a calmierare questa stasi collettiva, questa ansia del vivere quotidiano. L’attimo fuggente colto da Pulze, sfugge. Può assumere l’angelo, deduco, le valenze simboliche del caso, (dipende dal tipo di ricettore che si piazza davanti al quadro).

Personalmente se ne potrebbe anche fare a meno, ricordo per inciso che anche Satana era un angelo seppur decaduto e privato della grazia divina. La tela è già così piena e forte di un suo originale horror vacui che regge in garbato equilibrio ogni millimetro quadrato dipinto. L’occhio indagatore non si stanca di spaziarvi dentro, di planarvi in lungo ed in largo come fosse un alato Batman, sfiorando il pittore che invece si pone come punto privilegiato di prospettiva allo stesso livello delle persone ritratte.

Ora, giustamente Gabriele Perretta, acuto curatore della mostra bolognese che ho visitato un paio di mesi fa, parla di simulazione e di inganno delle immagini. Vero, simulazione nella stretta accezione di Torquato Accetto (1641), “simula colui che finge vero cioè  che non è”, e Pulze è coscio di simulare un mondo che non c’è, fissa sulla tela l’istante prima della tempesta. Appare tranquillo il suo andamento iconico, idilliache le coppiette a braccetto, durante una bella serata dicembrina, con il fiato che imbianca le parole dolci sussurrate cheek-to-cheek.

Mi viene in mente un bel acquarello di Aroldo Bonzagni, Aroldo, Ginette e Popi (1915). Perché? Perché entrambi affrontano lo stesso tema esistenziale, l’attimo assoluto del vivere quotidiano, ma in maniera esattamente speculare. Mentre il pittore centese ma di adozione milanese, orchestra l’inganno visivo concentrandosi e quindi limitandosi all’aspetto glamour della coppia a passeggio con cane vista di spalle, in Pulze quella girandola iridata lascia trasparire l’odore inquinato dell’aria che beatamente respiriamo nelle nostre benamate metropoli, ignari del nostro destino, nonostante la strabiliante fantasmagoria di luci e lo sfavillio di insegne, nonostante i riflessi esplosivi di finestre bellamente illuminate e nonostante i tipici aggeggi del nostro inesauribile e frenetico comunicare.

Giovanni Pulze, MediaAngels a cura di Gabriele Perretta, Millenium Gallery, Bologna 4-24 aprile 2019.

 

2 giugno 2019

Conceptual writing

 

«L’arte è sempre stata “un copiare e incollare” da sempre» sentenzia a ragione Kenneth Goldsmith uno dei poeti concettuali che vanno per la maggiore. La conceptual writing esplosa nei primi anni 2000 nel continente nordamericano pigiando il tasto sul riuso e il reimpiego di materiali già esistenti, deve tuttavia molto alla poesia concreta del gruppo paulista di Noigandres nei primi anni Cinquanta, come alla poesia meccanica o spazialista di Pierre Garnier, includendo in questa lista di prodromi anche il manifesto scritto da Fahlström del 1953. Di quest’ultimo fa bene l’autore sempre ben documentato e preciso nei riferimenti storici a citare il termine “wordlets” unione di “word” e “letter”, perché in questo passaggio cruciale da una scrittura normale e ad una provocata da un sommovimento delle lettere che finiscono per alterare le parole stesse, s’annida il motore estetico della conceptual writing. Penso a quell’operazione speciale dove il poeta svedese (ma d’adozione brasiliana) ha innestato intraverbalmente il canto di alcuni uccelli o il nome dei mesi dentro il corpo della parola.

I poeti concettuali hanno sviluppato l’aspetto grafico andando ben oltre la semplice ma acutissima pagina del Coup de dés mallarméano, sfruttando le nuove tecnologie al loro limite estremo come nei lavori di Derek Beaulieu che espande la scrittura, moltiplicandola e trasformandola in un corpo quasi tridimensionale. Devo riconoscere sempre pertinente il loro impiego del software, intendo dire ben giustificato e mai lezioso come avviene in Craig Dworkin attraverso quell’impresa ineffabile di scrivere il famoso capitolo XXIV, che come tutti sanno, è assente nell’opera The Life and Opinions of Tristram Shandy. Il suo autore, Laurence Sterne aveva deciso di ometterlo perché troppo bello, e avrebbe rischiato di alterare l’equilibrio dell’intero romanzo. Emilio Isgrò, riprendendo Man Ray, era solito operare manualmente le sue cancellature, lo stesso fa ancora Beaulieu facendo evidenziare i segni di interpunzione o saccheggiando un romanzo di Paul Auster, con lo scopo dichiarato di salvare visualmente solo i nomi dei protagonisti che sono, guarda caso nomi di colori, il tutto orchestrato e diretto da una sapiente regia tecnica dove nulla è concesso al caso. La lettura di siffatti materiali illeggibili fa come sostiene Pitozzi «emergere dai testi la loro logica costitutiva», ma richiede, aggiungo io, un nuovo assetto percettivo da parte del lettore, che svolge pur sempre la funzione essenziale di ricevente.

Il tentativo di questi poeti concettuali evidentemente consiste nel rimpiazzare il noto lirismo della poesia lineare, il cosiddetto io, alias la voce della poesia, con dei valori “poetici” altri (come in Xenotext di Bök) che i più accaniti detrattori della conceptual writing hanno bollato come uncreative, unoriginal, unispired. Anche un autore come Nanni Balestrini, l’autore più pigro della nostra letteratura (definizione di Umberto Eco) era solito prendere materiale di consumo, ritagliarli e adattarli al suo “io”. A nessuno è venuto mai in mente di definirli poco creativi. I poeti concettuali applicano alla lettera la tecnica di Cage, il writing through, fanno leva su quella che è una caratteristica innata della ricerca d’avanguardia, ovvero, l’ambiguità, e il senso opaco o no che sia, non va pescato su quanto scrivono o meglio stendono sullo schermo del computer, ma sul come lo scrivono. Da sempre la poesia è una scelta di forma, in primis, ciò che si vede, si intravede e ciò che il testo lascia trasparire, «the visual is more than the visible» (Lyotard). Si invoca pertanto, in modo neanche tanto velato, un nuovo di leggere, e di vedere l’opera.

Appare invece carente il lato sonoro nella conceptual writing. Il nostro autore va ancora elogiato, perché è tra i pochissimi ad usare il termine “vocalità”, nella corretta accezione zumthoriana (complimenti!). Vero come sostiene Christian Bök che le avanguardie storiche hanno polverizzato la parola per risuscitare un discorso atrofizzato, ma è altrettanto vero che la poesia sonora ha avuto un vorticoso sviluppo nella seconda metà del Novecento, dove accanto alle pratiche delle vocalità si è instaurata anche quella della “oralità”, oppure, in sintesi per usare un mio neologismo, la pista “vocoralità” che fonde le due linee.

Andrea Pitozzi, Conceptual writing, Milano, Edizioni del Verri,  2018.  

 

29 maggio 2019

Nanni Balestrini (1935-2019)

in memoriam

Scrivere di Nanni vuol dire srotolare a ritroso il nastro della vita. Sono tante le situazioni che abbiamo condiviso e che adesso mi si affollano tutte insieme nella mente attutendo in parte il dolore per la sua improvvisa scomparsa.

Comincio dalla sua presenza ai festival di poesia sonora che nella metà dei Novanta organizzavo al DAMS di Bologna. Ricordo una serata particolare quando si presentò a leggere uno dei testi suoi che io da sempre prediligo ovvero Piccola Lode al Pubblico della Poesia, accompagnato da un gruppo di ragazzi aspiranti attori della Corte di Rubiera. Lui stava seduto al centro della scena mentre attorno come folletti impazziti si agitavano le sagome dei teatranti. Poi vennero le varie partecipazioni a Romapoesia, festival di sua ideazione come proseguo di Milanopoesia e Veneziapoesia. Sì, al di là della figura di poeta, Nanni incarnava alla perfezione anche quella di manager o se preferite organizzatore di eventi collegati al mondo poesia. Il punto massimo di questa traiettoria è rappresentato dal Festival di Poesia Italiana (Enciclopoesia) che si tenne a Tokyo nell’aprile del 2001, festival cui anch’io contribuii ad allestire prendendo contatti con il locale Istituto Italiano di Cultura durante una mia precedente tournée in terra nipponica. Lo ricordo attivo e fresco nel dicembre del 2006 quando per l’ennesima volta lo invitai a Bologna per l’inaugurazione de La Voce Regina, postazione multimediale, permanente in Biblioteca Sala Borsa. Anche in quell’occasione lo persuasi a leggere il testo da me prediletto, e fu come sempre un successo, il suo leggere aveva sempre un qualcosa di speciale, leggeva come parlava, l’anima che traspira dalle parole.

 

Se devo estrapolare un momento topico della sua carriera poetica, direi senz’altro, le esperienze denominate Tape Mark  dei primissimi anni Sessanta realizzate presso lo Studio di Fonologia Musicale di Milano, fondato da Berio e Maderna (si veda la mia intervista in http://www.3vitre.it/ilmovente.htm). Fu uno dei primi se non il primo ad utilizzare il computer per fini creativi, e già da quelle pratiche era evidente la sua idiosincrasia verso le parole, preferiva usare quelle non sue, come si dirà in seguito. Era decisamente in anticipo sui tempi, per certi versi quei suoi lavori oltre a sviluppare quella che sarà la computer poetry, a mio avviso, delineano abbastanza bene le piste che la conceptual writing, soprattutto americana, batterà nei primi anni del Duemila.

 

Tutte le volte che passerò per la stazione di Bologna, mi verranno in mente i nostri incontri dentro la Vip Lounge delle FS, all’insegna di vita e poesia. Ti ricorderò nel tuo gentile, disinvolto e apparentemente distaccato aplomb, in realtà eri uno capace di saper ascoltare, dote abbastanza rara nel nostro ambiente, e di entrare subito in empatia con chi avevi davanti. E come mi hai detto nell’intervista appena citata, la cosa più bella è sempre l’ultimo libro uscito, spero che ti accompagni anche in quest’ultima performance, buon viaggio!

 

20 maggio 2019